Di more, assideramento e boccate per terra

Boccare:
Significato del termine: Cadere con la faccia per terra
Utilizzo: O’via occhio a non boccare
Era una notte buia e tempestosa – no aspettate, questo lo diceva Snoopy – che poi lo ammetto, è sempre stato un mio modello di vita. Oggi, all’alba dei miei trenta anni voglio condividere con voi un ricordo della mia infanzia che mi sta particolarmente a cuore.
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Quando ero piccola, anche se in realtà ancora oggi mi succede abbastanza spesso, quando inciampavo e cadevo non mettevo mai giù le mani.
Il mio istinto di sopravvivenza… questo sconosciuto.
Sta di fatto che da bambina, adolescente e donna adulta, ho l’incondizionata paura di farmi male alle mani. Mio cugino Michele, con cui sono cresciuta e che mi sopporta da ventinove anni e mezzo, mi prende in giro ancora oggi e per lui ogni occasione è buona per ricordarmi di tutte quelle volte che rincorrendolo, cadevo miseramente per terra spappolandomi sulla ghiaia davanti alla casa in cui vivevamo.
Giusto qualche mese fa stavamo camminando per la strada a Milano e accorgendosi subito che ero molto distratta e che non avevo visto un gradino mi ha strattonato dicendomi «occhio a non boccare te!» – faccio una precisazione – boccare in toscano significa: battere la faccia o i’muso per terra.
Posso dire serenamente e senza vergogna di essere stata una bambina perennemente con il cerotto in fronte o sul mento, il naso sgrattuggiato e le ginocchia dei jeans strappate. Cadevo sempre. Mia madre (santa donna) portava con lei una cassetta del pronto soccorso da far invidia a quella, so-tutto-io di Mary Poppins. Se devo essere onesta, cado ancora abbastanza spesso, ma al posto di piangere tiro certi moccoli che di certo non si addicono a una signorina, ma ehi… sono comunque toscana!
Mi ricordo che avevo sempre i vestiti sporchi della tintura di iodio rosa fluorescente che le suore mi mettevano sulle ferite a scuola… che avevi voglia a soffiarci sopra, bruciava come l’inferno e faceva pure un male cane! Dicono che il dolore fortifica lo spirito, sarà, ma io mi ricordo solo che mi facevo dei grandi pianti.
Sta di fatto che oltre a cadere frequentemente ero anche molto distratta e passavo la maggior parte del tempo con il naso all’insù e questo mi portava inesorabilmente a schiantarmi da qualche parte, praticamente era un circolo vizioso il mio. Cerotto – crosta – cerotto – crosta.
Ora che avete un idea generale del mio equilibrio, soprattutto quello fisico, diamo il via alla storia.
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Avevo forse 6 anni e i miei genitori decisero di portare me e mia sorella maggiore a fare una gita sull’appennino per raccogliere more e mirtilli che, io mangiavo, e il mio babbo cercava di conservare per farci la grappa. Bellissimo direte voi, certo ma se sei una bambina in pratica senza equilibrio, diventa anche molto pericoloso. Stavamo facendo un picnic, io correvo e cadevo, mia mamma mi seguiva con i cerotti, il mio babbo e mia sorella stavano mangiando sul telo quando cominciò a piovere. Dapprima una pioggerella leggera, poi una vera acquata, tanto che decidemmo di tornare a valle. Mia madre mi mise sulle spalle per evitare che mi facessi male scendendo velocemente verso il rifugio. Babbo apriva la fila, dietro mia sorella e infine mia madre con me.
Non scordiamo che eravamo lì per le more – di cui io sono golosa.
Da sotto la cerata mi sentivo protetta e con la mia manina riuscivo ad acchiappare qualche fruttino e tra more e mirtilli ne avevo la bocca piena. Arrivammo al rifugio e fradici fino alle ossa mio padre tolse la cerata a mia mamma e li mi trovarono, addormentata ma con le labbra completamente viola. Urla, strepiti, panico «la bambina è assiderata» diceva la padrona del rifugio, «mettiamola nell’acqua calda» diceva mio padre, mia mamma nel panico con gli occhi sgranati mi guardava sconvolta, non si era accorta che avevo preso così tanto freddo?
Nemmeno il tempo di spogliarmi che venni infilata in una vasca da bagno piena d’acqua bollente, il tempo dilatato… chissà che cosa sarebbe successo. Dopo qualche minuto di panico, iniziai ad aprire i miei occhietti e inconsapevole dello spavento che avevo fatto prendere a tutti, iniziai a masticare. All’inizio nessuno se ne accorse, finché mia mamma mi aprì la bocca trovandola stracolma di more e mirtilli. Le labbra non erano viola dal freddo che avevo preso ma erano tinte del colore dei frutti di bosco, di cui mi ero riempita la pancia durante tutto il pomeriggio al sicuro sotto la giacca di mamma.
Ancora non so, con quale calma e spirito zen mia madre non mi abbia affogato in quella vasca da bagno in un rifugio sperduto sull’appennino tosco-emiliano, dove l’avrebbe fatta franca alla polizia. Sta di fatto, che ancora oggi quando mangio le more mi guarda con un filo d’odio negli occhi e che dire, credo abbia ragione lei.